venerdì 7 settembre 2012

Rezza-Mastrella, Ciprì e Maresco: due coppie (di alieni) a confronto.





Se ho scartato l'idea di scrivere un post dedicato esclusivamente a Ciprì e Maresco, è solo perchè ormai, sulla coppia palermitana, è già stato detto più o meno tutto, mentre lo scopo che mi sarei prefisso creando questo blog sarebbe quello di riportare alla luce autori o film ormai dimenticati, misconosciuti, o altrimenti di dire qualcosa di nuovo su opere già note, facendone risaltare aspetti possibilmente inediti.
L'idea di un post solo su Rezza-Mastrella (perchè ci tengono ad essere considerati come una cosa sola) mi ha anche sfiorato (e non escludo di poterla riprendere in considerazione un po' più in là), ma ho trovato ancora più interessante l'idea di un confronto fra le due coppie di artisti, essendo parecchi, almeno secondo il sottoscritto, i punti di contatto.

Antonio Rezza-Flavia Mastrella e Ciprì e Maresco, sono due coppie di artisti outsider, tra i pochissimi esempi di "diversità" non ancora omologata e assimilata dal sistema mediatico. Nei loro lavori è presente un elemento "perturbante", sgradevole, disperato, che rende ancora oggi impossibile una loro totale assimilazione all'interno dell'immaginario omologato, falso, rassicurante ed edulcorato, sia televisivo che, in buona parte, cinematografico. Questo ovviamente non è il loro unico elemento di affinità.

Innanzitutto entrambe le coppie hanno seguito dei percorsi curiosamente paralleli: hanno esordito alla fine degli anni Ottanta con opere brevi, "sketch" o cortometraggi veri e propri, caratterizzati dalla tendenza a shockare e spiazzare con uno humour sopra le righe, surreale, assurdo e spesso nerissimo (molto probabilmente debitore del teatro dell'assurdo beckettiano), venendo subito notati da Enrico Ghezzi che li ha immediatamente inseriti nella sua "Factory", diffondendo le loro opere attraverso Blob e Fuori orario.
In seguito avrebbero fatto entrambi delle brevi incursioni "dall'esterno" in alcuni programmi della Dandini (Ciprì e Maresco in "Avanzi" e Rezza-Mastrella ne "L'ottavo nano"), ma senza mai "sporcarsi le mani" con la satira politica della ditta Guzzanti-Dandini, ricavandosi una piccola nicchia che li rendeva delle presenze aliene, di fronte alle quali il pubblico a volte si dimostrava spiazzato e perplesso, altre volte fraintendeva ridendo a crepapelle davanti agli sketch di Rezza che probabilmente venivano scambiati per comicità pura, senza accorgersi forse di quanto angosciosi e inquietanti fossero in realtà cortometraggi come "Hai mangiato?" o "Il sonno degli esclusi" (di cui si può trovare ancora adesso su youtube un video estrapolato proprio da "L'ottavo nano", con le risate fuori campo del pubblico).
In seguito avrebbero realizzato entrambi due lungometraggi, "Escoriandoli" e "Delitto sul Po" da un lato, e gli ormai celeberrimi "Zio" e "Totò" dall'altro (perchè da Il ritorno di Cagliostro ormai non sono più loro).

Dal punto di vista poetico, la prima analogia che mi verrebbe da sottolineare è, come dicevo prima, la loro completa estraneità all'immaginario e all'estetica dominanti, vale a dire quella televisiva e in buona parte cinematografica.
I loro lavori vedono un'umanità degradata muoversi in ambienti desolati, squallide periferie urbane, oppure del tutto astratti, fuori dal tempo, in un universo straniante in quanto apparentemente impossibile da collocare all'interno di coordinate spazio-temporali riconoscibili (con l'unica differenza che i luoghi e i volti di Ciprì e Maresco sono chiaramente quelli della Palermo periferica e degradata - che diventa però anche metafora del mondo contemporaneo e della condizione umana - , mentre quelli di Rezza-Mastrella sono ancora più astratti).
Entrambi sembrano voler rappresentare l'altra faccia del benessere economico, anche se non c'è quasi mai traccia in loro di una esplicita e diretta critica sociale: i personaggi che popolano i loro mondi e che sembrano provenire da condizioni sociali arretrate e pre- (o forse post) urbane, sembrano voler demolire con sarcasmo feroce qualunque illusione "progressista", qualunque "ottimismo democratico" (e "Ottimismo democratico" è proprio il titolo del dvd di Rezza-Mastrella recentemente uscito, contenente una raccolta di alcuni dei loro lavori più riusciti più vari extra), facendo emergere al contrario il profondo degrado e la sterilità del mondo contemporaneo, e in generale la disperazione, l'angoscia, il vuoto di senso che si celerebbero dietro il falso progresso e il mondo di plastica nel quale ci troviamo immersi.

La disperazione infatti è un altro elemento che accomuna i loro lavori, e che trova espressione nelle loro scelte stilistiche: il bianco e nero espressionista e schiacciante di Ciprì e Maresco da un lato, le inquadrature sghembe e deformanti di Rezza-Mastrella, che ricordano vagamente quelle di Welles o di Ruiz, e che sembrano voler comunicare un senso di angosciosa assurdità.

I due registi palermitani sono più rigorosi e "classici" nell'uso delle inquadrature, i lavori di Rezza invece sono caratterizzati da un gusto più barocco ed eccentrico; le inquadrature sembrano susseguirsi in base a una sorta di flusso di coscienza, di scrittura automatica, e le immagini deformate sembrano rimandare a un mondo ribaltato, dominato dalle leggi anarchiche dell'inconscio, che li rendono pertanto più vicini al surrealismo che non all'espressionismo di Ciprì e Maresco.
Le loro immagini sembrano voler esplodere, distruggersi dall'interno, esattamente come il corpo e la voce di Rezza, gli unici veri protagonisti dei suoi lavori (soprattutto quelli teatrali), animati da un'angoscia e una disperazione che lo rendono sul palco una sorta di burattino indemoniato e tarantolato.

Lo scollamento fra corpo e voce è un'altro aspetto su cui entrambi gli artisti lavorano: Ciprì e Maresco giocano sull'effetto straniante prodotto dalle battute palesemente messe in bocca ai loro non-attori, delle quali sembrano ignorare completamente il senso, e dall'evidente estraneità di questi ultimi rispetto ai siparietti nei quali vengono coinvolti, a volte con feroce cinismo, dai due registi; Rezza-Mastrella invece giocano sul fuori sincrono, sulla a-sincronia fra i movimenti dei personaggi-corpi e le battute, tutte pronunciate dallo stesso Rezza e provenienti da una sorta di zona non ben definita, al limite fra l'interno e l'esterno dell'inquadratura.
In questa scelta si potrebbe intravedere una sorta di riflessione sulla morte del linguaggio, sull'estraneità del "soggetto"-uomo nei confronti del "discorso" nel quale ogni essere umano si verrebbe a trovare una volta inserito in quella che Lacan chiamava "catena significante" (anche se non amo citare Lacan, non è tra i miei autori preferiti), estraneità nei confronti del contesto storico, sociale, umano, linguistico, simbolico, insomma, in una sorta di a-sincronia rispetto a sè stessi.
Cosa che probabilmente sarebbe piaciuta molto a Carmelo Bene, che infatti ha affermato più volte di considerare Ciprì e Maresco tra i pochissimi autori cinematografici che apprezzava (insieme a "mezzo Pasolini", Joao Cesar Monteiro, e solo in parte Godard e Ejseinstein), e sicuramente fonte d'ispirazione per molte cose di Rezza (che nelle sue dichiarazioni, così come nel suo "manifesto poetico", tende a emularlo un po' troppo, ma di questo ci si potrebbe occupare in altro loco), tra cui ad esempio il lungometraggio destrutturato "Delitto sul Po", opera che sicuramente strizza l'occhio ai film di Bene, in particolar modo a "Nostra Signora dei Turchi".  

mercoledì 5 settembre 2012

Begotten, di Elias Merhige

Begotten (1990) by E. Elias Merhige

Come ogni operazione di questo tipo (vale a dire: underground sperimentale weirdissimo con largo uso di simbologie che dia l'impressione di essere un delirio ermetico-metafisico malatisssimo ecc..), "Begotten" è stato subito accolto dagli elogi estasiati di chi ha urlato al genio e al capolavoro, come la scrittrice americana Susan Sontag che lo ha definito "uno dei dieci film più importanti dei tempi moderni" e altre simili cazzate, e d'altra parte, ovviamente, da chi ha non è rimasto del tutto convinto dalla visione. A mio avviso si tratta semplicemente di un'opera cui non vanno attribuiti altri meriti oltre a quello di essere semplicemente "interessante": non un capolavoro nè un film geniale, ma un'opera che merita almeno una visione.

"Language bearers, photographers, diary makers, you with your memory are dead, frozen, lost in a present that never stops passing; here lives the incantation of matter: a language forever. Like a flame burning away the darkness, life is flesh on bone convulsing above the ground". Questa è la didascalia con cui si apre il film, che non è altro che una sorta di personalissimo delirio sulla nascita della natura e la creazione dell'uomo, e sul rapporto fra i due.

La prima scena ci mostra il suicidio di Dio, intento a sventrarsi con un rasoio; dalle sue viscere ed escrementi, ovvero dalla sua materia morta e inanimata, viene generata Madre Natura (con una mascherina nera in viso, suppongo per sottolinearne la "cecità"), la quale, masturbando il cadavere di Dio si farebbe fecondare dal suo seme, dando vita così all'uomo. Quest'ultimo, una volta partorito e ritrovatosi sulla nuda terra, viene immediatamente legato a una fune da quattro esseri incappucciati che rappresenterebbero credo le funzioni vitali (uno dei quattro mi pare di aver capito si chiami "flesh on bone"), che tenendolo strettamente legato e sballottandolo di qua e di là, sembrano nutrirlo, occuparsi del suo sostentamento, ma al contempo torturarlo e stuzzicarlo costantemente con dei bastoni, mentre questi, in preda a continui spasmi e convulsioni, sembrerebbe volersi ribellare a tutti i costi a tale prigionia. Altre inquadrature ci mostrano sempre l'uomo sanguinante tenuto al guinzaglio e trascinato da Madre Natura.
Probabilmente il significato di tutto ciò è che l'Uomo sarebbe succube di una natura cieca e malvagia, fatta semplicemente di pura materia, e che i suoi disperati tentativi di liberarsi da tale dipendenza, il suo anelare a una dimensione superiore, spirituale o trascendente, sarebbero destinati al fallimento, dato che l'oggetto del suo desiderio di elevazione (Dio, il cui seme gli avrebbe trasmesso la tensione verso il trascendente) è morto proprio ad inizio film; tutto insomma non sarebbe altro che materia, la vita non sarebbe altro che semplicemente "flesh on bone convulsing above the ground".

In seguito, altre immagini confuse e convulse ci mostrano i quattro uomini incappucciati uccidere Madre Natura per poi violentarla e smembrarla, e inserirne il corpo in una specie di contenitore che viene a sua volta sotterrato; dopo la morte della Madre, l'uomo si ritrova da solo a strisciare come una larva su una grande spiaggia deserta, ma prontamente i quattro omini sopraggiungono per uccidere e smembrare anche lui; a questo punto, le parti smembrate dei loro corpi vengono ulteriormente spappolate e poi seppellite, in modo da fondere di nuovo insieme Madre e figlio che si rigenereranno da sè, per tornare di nuovo l'uno al guinzaglio dell'altra.

Il film dunque parte abbastanza bene, ma ben presto l'allegoria inizia a girare un po' a vuoto e a diventare stantìa e banalotta.
A destare qualche interesse però è lo stile: il bianco e nero sgranato fino all'inverosimile dilata l'immagine lasciando quasi intravedere la consistenza stessa della materia, dilatando e disfacendo le immagini e le azioni fino all'incomprensibilità; anche il tempo pare abolito: le singole azioni vengono dilatate allo spasimo fino a dissolversi, o a comprimersi ed annullarsi in ogni singolo istante, a perdere consistenza e a sgretolarsi in una serie di atti istantanei e fulminei, che si susseguono inviluppandosi in un continuum indifferenziato.
Tutto ciò che avviene sembra essere il prodotto di mutamenti della materia, sembra di assistere quasi al suo ribollire interno in una dimensione in cui tutto è fuso e indistinto, e ad accentuare questa sensazione contribuisce un tappeto sonoro che accompagna costantemente le immagini, e che riproduce di volta in volta suoni naturali o rumori di carattere organico, dal frinire dei grilli, al respiro umano fino al ribollire di fluidi organici.

Il regista stesso, Elias Merhige, ha ammesso che il limite del film consisterebbe nel suo essere un delirio eccessivamente personale. Nulla da aggiungere.


lunedì 3 settembre 2012

Cosmopolis, di D. Cronenberg



Un film che vorrebbe essere un'enorme sintesi di tutte le teorie sulla post-modernità, e quindi, conseguentemente, di tutte le ossessioni del regista canadese: si va dalla spersonalizzazione e reificazione dei rapporti umani nell'era del capitalismo finanziario, alla de-realizzazione-digitalizzazione della realtà e conseguente riduzione di quest'ultima (compresi gli individui) a "flussi di informazione" trans-personali (in un dialogo si parla persino della morte del concetto di computer come "unità a sè stante"); dalla morte del desiderio e del piacere e il suo trapassare nell'istinto di morte (quell' "al di là del principio di piacere" già trattato ampiamente - e molto meglio- soprattutto in "Crash"), coi corpi che si con-fondono coi loro abitacoli e i rapporti sessuali che hanno lo stesso valore umano di un colpo di pistola (pura scarica di energia), all'oblìo dell'umano, del corpo e della carne nella società smaterializzata; infine, sulla voragine che separa l'universo ipercontrollato e programmato del sistema dominante, del potere, da quello invece dei reietti, degli emarginati che vivono fuori dal Sistema, ridotti inevitabilmente ad essere "vite di scarto".
Tutto molto interessante, per carità, ma chi abbia un minimo di familiarità con queste tematiche, con autori come MacLuhan, Baudrillard (da sempre punti di riferimento della poetica cronenberghiana), Levy, Bauman e i vari profeti della postmodernità e della realtà virtuale, probabilmente non proverà nessun particolare sussulto, visto che Cronenberg pare non voler aggiungere troppo di suo a tutto questo, limitandosi a una mera elencazione di tali teorie, per giunta in forma dialogica.

E questo forse è il principale punto debole del film: tutto rimane fermo al livello dei dialoghi, e quindi tutte le varie tematiche vengono passate in rassegna una via l'altra senza un minimo di approfondimento limitandosi ad essere una pura ed impersonale catalogazione di tutti i principali luoghi comuni sulla postmodernità. A differenza degli altri film del regista, in cui le tematiche si facevano immagine, carne, trovando espressione in una forma cinematografica originale e spesso affascinante, qua invece manca proprio l'elemento "cinema".

Certo, è ovviamente una scelta del regista quella di basare tutto sui dialoghi (surreali e strampalati) e su una recitazione straniata, quasi brechtiana, come se i rapporti umani stessi si fossero ridotti a meri "scambi di informazioni" disincarnati fra automi; ma la scelta di affidare tutto ai dialoghi, sembrerebbe tradire anche una certa stanchezza registica, ravvisabile ormai in tutti gli ultimi film del regista, sospetto che sembra trovare conferma nel fatto che i dialoghi siano stati presi pari pari dal romanzo e inseriti nel film, senza pressochè alcuna modifica.

Inoltre, alcuni goffi tentativi di inserire dei tipici "marchi di fabbrica" cronenberghiani che però finiscono per scivolare rovinosamente nel ridicolo involontario (come nella conversazione fra Pattinson e la donna dello jogging, durante la quale mentre il primo viene sottoposto ad un esame della prostata l'altra stritola una bottiglia di plastica fra le gambe per sublimare la tensione sessuale), fanno temere sempre di più che Cronenberg stia rischiando di diventare una parodia di sè stesso, come già sembravano suggerire certe cadute nel pacchiano presenti nel precedente "A dangerous method".

A tutto ciò si aggiungono delle notevoli ingenuità, come la previsione dell'imminente implosione e autodistruzione del capitalismo (cosa che ci auguriamo un po' tutti), premonizzata ad ogni crisi economica dal '29 a questa parte, ma mai avvenuta.

Infine, credo di non aver capito ancora bene il discorso della prostata asimmetrica: l'imperfezione, l'elemento caotico, microscopico e imprevedibile capace di sfuggire alla precisione del calcolo, dovrebbe essere questo a causare lo scacco della pretesa di pianificazione totale del reale che starebbe alla base del sistema capitalistico? Io non ne so moltissimo, ma non sono proprio il caos e l'imprevedibilità a dominare gli andamenti borsistici, fino a diventare un tutt'uno con le leggi del sistema?

sabato 1 settembre 2012

The ugly swans, di K. Lopushansky



Lo scrittore Victor Banev decide di recarsi a Tashlinsk, cittadina fantasma in cui accadono misteriosi avvenimenti legati ad un'alterazione climatica i cui motivi rimangono ignoti. Banev decide di entrare a far parte della Commissione internazionale che si occupa di ciò che accade nella città, al solo scopo di riportare a casa sua figlia, mandata lì a studiare presso una scuola riservata a ragazzini dotati di un'intelligenza superiore. Nel far ciò finisce per imbattersi nel mistero degli "idroliti", uomini colpiti da una mutazione genetica a causa di una serie di piogge acide, arrivando a scoprire che lo scopo segreto delle forze militari sarebbe quello di uccidere questi ultimi in quanto avvertiti come una minaccia per l'umanità. In seguito si verrà a scoprire che proprio gli idroliti avrebbero riunito i ragazzini super-dotati (i "brutti cigni" del titolo) allo scopo di dar vita a una nuova umanità, destinata a soppiantare la nostra, ormai destinata all'autodistruzione.

La guerra dunque sembra giocarsi su due fronti: da un lato l'ottusità e l'arroganza di chi vede negli idroliti e nei bambini una minaccia da sterminare, non riuscendo a cogliere la necessità di una radicale evoluzione dell'umanità, di uno sviluppo intellettuale e spirituale tale da non avere precedenti nella Storia, affinchè la specie continui a sopravvivere; dall'altra i rappresentanti della nuova razza eletta, la cui superiorità li avrebbe condotti alla coscienza del Nulla essenziale dell'uomo ("...Il senso terribilmente reale della nostra esistenza non nel mondo, ma da qualche parte tra i mondi, non è nella delimitata realtà, ma è nello spostamento e formazione, non è nell'assestamento casalingo, ma è nell'insensato pellegrinaggio...è stato possibile solo rovesciare il velo di Maya e osservare tutto dalla parte opposta, non da quella parte che ti culla e ti dona un senso di calma, ma dalla parte del Niente, che rivela la nostra presenza vitale come un avanzamento del Niente"), soggetti però a loro volta ad un altro tipo di ottusità, di "crudeltà" nei confronti di quella che per loro sarebbe la nostra umanità "degradata": l'incapacità di comprendere come l'essenza dell'uomo stia nella sua imperfezione e costante perfettibilità, nella sua fluidità e capacità di rialzarsi dopo aver affrontato il peggio, di come nell'uomo possano coesistere la più vile bassezza e la nobiltà d'animo. A costituire questa via di mezzo fra i due estremi è proprio il protagonista, Victor Banev, l'unico rappresentante della vecchia umanità giudicato in grado di entrare a far parte del nuovo mondo, e che infatti si batterà fino alla fine per la salvezza dei bambini.
La critica di Lopushanskij quindi, come nei due film precedenti della sua ipotetica trilogia "apocalittica" (Letters from a dead man e Posetitel muzeya) è rivolta al razionalismo della società occidentale (vengono citati Kant ed Hegel come emblema di questa mancanza di considerazione per l'uomo nella sua globalità) e tecnocratica, non alla scienza in sè ovviamente, ma all'incapacità dell'uomo di comprendere sè stesso fino infondo, di accettarsi, di "ricordare la propria umanità e di dimenticare tutto il resto" (come vien detto nel manifesto di Russell e Einstein per il disarmo nucleare, citato anche nel finale di "Letters from e dead man).
Insomma, Lopushanskij si conferma erede di Tarkovskij (il film è tratto dall'omonima novella dei fratelli Strugatskij, sceneggiatori di Stalker), nelle tematiche e in parte nell'immaginario; il talento visionario del regista, a volte davvero folgorante come nell'insuperato (almeno per me) Posetitel muzeya, costituisce come al solito uno dei principali motivi di fascino e di attrazione del film, coi suoi scenari apocalittici e i suoi scenari post-atomici costantemente avvolti da bagliori rossastri.

venerdì 31 agosto 2012

Postitel muzeya, di K. Lopushansky




Il film è un angoscioso incubo post-atomico ambientato in una periferia urbana ridotta a un'enorme discarica radioattiva, irradiata qua e là da fuochi rossastri coi quali i pochi superstiti dell'umanità cercano di tener lontani dalle loro misere abitazioni i cosiddetti "degenerati", essere sub-umani e deformi, probabilmente a causa delle radiazioni tossiche, che vivono e lavorano segregati in claustrofobiche miniere invase da luci infernali.

Questi ultimi, come dei nuovi Cristiani all'epoca della caduta dell'Impero, sono dediti a uno strano culto in un tempio abbandonato (il "Museo" cui fa riferimento il titolo), culto che prevede un'unica preghiera consistente nell'urlare una sola frase: "lasciaci uscire da qui" (ovvero "lasciaci morire"), e basato su scritture in cui si parla dell'estraneità dell'uomo a sè stesso, della sua incapacità di essere padrone del proprio destino ("Dio si è nascosto e dappertutto regna l'inferno, ogni cosa che l'uomo fa è inferno"), di una misteriosa collina sulla quale avrà luogo l'inizio di una nuova era, e soprattutto in cui si profetizza la venuta di un nuovo Messia inviato per farsi portavoce delle sofferenze dei supplici presso il Signore, allo scopo di esaudire la loro preghiera: "Egli si farà carico delle vostre suppliche presso la sede della giustizia...Ma egli non comprenderà il suo mistero nè comprenderà il suo percorso. Egli dovrà essere sordo e cieco come tutti gli incrollabili alla fine dei tempi. Ma percepirà le ali del suo angelo, il nome del suo angelo è Dolore. Sia realizzata la profezia poichè essa dice: un propiziatore giungerà nei giorni finali, la sua venuta gli scatenerà una grande sofferenza. Non avrà null'altro se non questa. Non avrà il dono della profezia, nè della guarigione, nè il dono della provvidenza, nè il dono delle lingue. Ma dovrà essere ascoltato per via delle preghiere dei disperati. Nel giorno decisivo intercederà per voi e sarà l'ultimo, non potrà esserci nessun altro. Amen".

Anche il nuovo Messia dunque sarà vittima della maledizione che avrebbe colpito l'umanità intera: l'alienazione da sè, l'incapacità di comprendere sè stessa e la meta del proprio percorso, che l'avrebbe portata all'autodistruzione.
"Se tutto è già scritto, se tutto è previsto, allora non siamo altro che marionette", vittime di una storia destinata a ripetersi in eterno e dalla quale l'uomo pare estromesso in quanto soggetto. I degenerati dunque, non rappresenterebbero altro che l'Uomo, la loro menomazione psichica e fisica simboleggia la sua imperfezione, l'ignoranza e l'oscurità nella quale egli si muove: in un dialogo tra il protagonista e il padrone della locanda presso cui alloggia, la dottrina dei "degenerati" viene paragonata alla massima dell'apostolo Paolo: "si faccia stolto per diventare sapiente, poichè la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio" - "sono pensieri incomparabili" - "perchè? E' essenzialmente la stessa cosa".
Così come quella sola frase recitata dai degenerati nella loro unica preghiera ("lasciaci uscire da qui") non sarebbe altro che una riduzione all'essenza del sentimento religioso, di qualunque sentimento religioso, almeno nella visione nichilista e disperata di Lopushanskij: non c'è differenza tra i cosiddetti "normali" e i degenerati, perchè noi tutti siamo "deformi", un po' come ne "Anche i nani hanno cominciato da piccoli" di Herzog, in cui la deformità dei personaggi è allegoria della condizione umana.

In una lunga sequenza vediamo il nuovo Messia vagare da solo in mezzo a una natura desertica e selvaggia, in cui poter andare alla ricerca di un contatto col Sacro, lontano dalla presenza contaminante e mortifera dell'uomo, andando alla ricerca di un segno, di una manifestazione del Divino; unico momento, questo, in cui il lirismo delle immagini offre un parziale riposo all'occhio dello spettatore, in un film interamente dominato da una fotografia espressionista (e anche abbastanza rozza), basata tutta su un rosso sanguigno che inonda gli interni delle case e i volti, e sul nero che carica ogni immagine di un'angoscia opprimente. Ma la manifestazione non avverrà, Dio si nasconde, non si mostra, e il Messia storpio, come profetizzato dalle scritture, salirà sulla collina della "nuova era", un enorme cumulo di immondizia, iniziando a dirigersi verso un orizzonte in cui i rifiuti si perdono a vista d'occhio, non potendo fare altro che urlare a un Dio che si nega tutto il dolore sordo dell'umanità, mentre un sole alto e distante sembra guardarlo indifferente e stormi di corvi neri svolazzano sull'enorme discarica stagliandosi contro il cielo rossastro, nell'ultima, bellissima e terribile inquadratura.

Certo, qua e là una certa tendenza al manicheismo, qualche ingenuità e qualche concessione ad un weird quasi jodorowskiano, non rendono questo "Posetitel muzeya" quel capolavoro che a mio avviso avrebbe potuto essere. Vi si può rintracciare una certa ingenuità nella critica al razionalismo della civiltà occidentale che avrebbe portato quest'ultima alla rovina, così come un certo didascalismo nei dialoghi, che sembrano a volte presi da una di quelle recite medievali in cui non si faceva altro che dire quanto schifo facesse l'uomo ("l'uomo ha prodotto solo immondizia" afferma il degenerato, "no, l'uomo ha prodotto beni materiali" risponde invece il "razionalista").

Detto ciò, "Posetitel muzeya" rimane comunque un film di rara potenza visiva e visionaria, un'opera deviata, impossibile da catalogare all'interno di un genere; l'unica eredità ravvisabile è il cinema di Tarkovskij (oltre, in parte, ad un certo filone di fantascienza apocalittica che a quanto pare sta prendendo piede in Russia da alcuni anni a questa parte, ma di cui so poco o niente), di cui Lopushanskij ha sicuramente introiettato lo stile, la sensibilità visiva e le tematiche, ma che ha sviluppato in direzione di una visione del tutto personale e indipendente, sicuramente meno profonda e poetica, intellettualmente ed esteticamente più rozza, ma caratterizzata da un pessimismo cosmico e un nichilismo radicale, che in questo film toccano il loro punto più alto all'interno della filmografia del regista.



mercoledì 29 agosto 2012

Konstantin Lopushansky: Tarkovskij dopo l'Apocalisse.



Konstantin Lopushansky inizia la sua carriera come assistente alla regia di Tarkovskij per Stalker, collaborazione che influenzerà profondamente tutta la sua, purtroppo scarna, produzione artistica, tanto che da molti viene considerato un vero e proprio discepolo del regista russo.
Lo stile e le tematiche del cinema del maestro infatti, in particolar modo quelle di Stalker, sono rintracciabili nelle tre opere principali che compongono la sua filmografia, due delle quali ("Pisma myortvogo cheloveka-Letters from a dead man" e "Gadkie lebedi-The ugly swans") sono tratte proprio da due novelle dei fratelli Strugatsky, gli stessi che hanno sceneggiato il summenzionato film di Tarkovskij.
Se da un lato l'influenza del maestro scade di tanto in tanto in un manierismo un po' plateale a tratti forse addirittura irritante (il suo primo film "Letters from a dead man" è dominato da una fotografia costantemente virata in seppia, e in generale nei suoi film ricorrono immagini di locali invasi dall'acqua con macerie galleggianti che sembrano presi pari pari dai film di Tarkovskij), in una tendenza a un ingenuo didascalismo, o addirittura a un tono fasitidiosamente predicatorio, tanto da far pensare di tanto in tanto ad un malriuscito scimmiottamento del cinema del maestro, dall'altro, la sincerità dell' ispirazione che traspare spesso dalla visceralità delle sue immagini, suggeriscono in realtà una personalità artistica autonoma e degna di interesse.
Lopushanskij infatti pare aver introiettato lo spirito di Tarkovskij, adattandolo però ad una sensibilità e una poetica del tutto personali, che fanno sì che il suo cinema prenda una strada personale e diversa da quella del maestro.
La principale differenza fra i due autori consiste nel pessimismo cosmico, nell'atmosfera cupa, angosciosa, opprimente e spesso malsana che si respira nei film di Lopushanskij, nella visione disperata e apocalittica dell'uomo, in un grezzo espressionismo che prendono il posto della raffinata poesia, dei barlumi di speranza (per quanto sofferta), e anche della profondità umana e filosofica di Tarkovskij.
Tutt'e tre le opere principali del regista (Letters from a dead man, Posetitel muzeya, The ugly swans)sono ambientate in un futuro post-atomico(anzi, in un'epoca imprecisata che richiama palesemente il nostro presente), in un mondo divenuto un' immensa discarica in cui sterminati paesaggi di rifiuti e rottami si perdono a vista d'occhio, vuoi in seguito a una catastrofe nucleare ("Letters from a dead man"), vuoi per lo scioglimento dei ghiacciai ("Posetitel muzeya-Visitor of a museum"), vuoi per misteriosi mutamenti climatici dovuti ad alterazioni dell'ecosistema ("Gadkie lebedi").

L'ossessione del regista sembra essere principalmente la post-umanità. I suoi film prendono le mosse dalla desolata constatazione dall'autodistruzione del genere umano, vittima di una mancata evoluzione spirituale che compensasse e sorreggesse quella tecnico-scientifica, e dunque dell'inizio di ciò che dovrebbe essere una nuova era, la nascita di una nuova umanità. Ma se ancora il finale di "Letters from a dead man" ( nel quale viene estrapolato dal manifesto Russell-Einstein l'appello a "ricordare la nostra umanità, e a dimenticare tutto il resto") lascia intravedere un barlume di speranza, con lo scienziato protagonista che si prende cura, come una sorta di nuovo Messia (figura ricorrente i tutti e tre i film) di un gruppo di bambini abbandonati, nei due film successivi, i discendenti, i successori dell'uomo, sono delle creature la cui unica prerogativa è la consapevolezza del vuoto, del Nulla alla base della condizione umana, della tragicità insita nel suo essere.

Il più pessimista è il secondo "Posetitel muzeya", sicuramente il migliore dei tre, film allucinato e allucinante con cui Lopushansky sfiora il capolavoro, l'unico tra l'altro ad essere ideato oltre che sceneggiato dal regista stesso (e ormai diventato un mio personalissimo super-cult).
In un mondo ridotto a un'immensa discarica radioattiva illuminata da luci rossastre, confinati in una riserva in cui lavorano come operai vi sono i "degenerati", sorta di esseri sub-umani, di scarti, figli dell'umanità stessa, dediti a un culto demenziale basato su assurde credenze teorizzate in scritti custoditi dai "sacerdoti", una religione che prevede una sola preghiera, consistente nel battere i pugni contro un muro implorando di essere "liberati" (cioè di morire), e nella quale viene profetizzato l'arrivo di un Messia "monco" (che arriverà), privo di poteri sovrumani, in grado soltanto di caricare su di sè il dolore dei supplici e mandato a intercedere presso il Padre per esaudire la loro richiesta, dal quale ovviamente non riceverà nessuna risposta e che finirà per vagare per montagne di spazzatura, urlando a un Dio che si nega tutto il dolore sordo dell'uomo.

Qualcosa di simile vale per i "Gadkie lebedi" (i "brutti cigni") del film omonimo, ragazzini dotati di un'intelligenza superiore, iniziatori di una nuova razza probabilmente destinata a soppiantare la nostra, ma la cui consapevolezza superiore li porta soltanto alla coscienza del Nulla di cui è fatto l'uomo ("...Qui, nel punto della maggiore indefinibilità, della non garanzia e della non confermazione dell'esistenza umana per la prima volta appare la nota chiarezza, s'illumina la notte del mondo. Il senso terribilmente reale della nostra esistenza non nel mondo, ma da qualche parte tra i mondi, non è nella delimitata realtà, ma è nello spostamento e formazione, non è nell'assestamento casalingo, ma è nell'insensato pellegrinaggio...è stato possibile solo rovesciare il velo di Maya e osservare tutto dalla parte opposta, non da quella parte che ti culla e ti dona un senso di calma, ma dalla parte del Niente, che rivela la nostra presenza vitale come un avanzamento del Niente."), tematica affascinante ma che purtroppo non viene sviluppata del tutto lasciando il film un po' irrisolto.

Lopushanskij è forse l'erede più originale di Tarkovskij (almeno fra i pochi pervenuti), anche se non il più grande (un Sokurov gli è probabilmente superiore): il suo cinema è imperfetto ma viscerale, le sue immagini veicolano un'angoscia sincera e nascono da un'urgenza espressiva che a tratti diventa quasi esigenza didattica.

martedì 28 agosto 2012

Possession, di A. Zulawski



Visto che si parlava di Zulawski, non si può prescindere da quello che è generalmente considerato il suo masterpiece.
Ormai espressioni come "malato", "eccessivo", "disturbante" o "sconvolgente viaggio negli inferi della psiche umana", sono diventate degli insopportabili clichè. Beh, forse bisognerebbe sforzarsi di liberarle dallo stato di usura in cui si trovano, e cercare di riscoprire il loro senso apposta per questo film, per il quale probabilmente non esisterebbero definizioni più adatte.

Un film che probabilmente è venuto fuori a Zulawski come un conato di vomito, come espressione di un grumo di tensioni talmente violente e intollerabili da dover essere espulse immediatamente (lo ha scritto in appena una settimana), insomma, se non lo avesse fatto probabilmente sarebbe esploso (e la "sottile" allusione ad un attacco di colìte non è casuale, visto che in qualche modo il film affonda, seppur simbolicamente, nella "materia fecale" dell'essere umano).
Ma l'urgenza espressiva del regista, il suo bisogno di sfrondare e comprendere fino infondo la psiche contorta e devastata della protagonista (nella quale si potrebbe intravedere forse una proiezione della moglie del regista stesso, che infatti ha scritto il film subito dopo il divorzio), paiono talmente violenti da andare a tratti a discapito della chiarezza, dando vita a un film in parte confuso e la cui totale comprensione forse è risultata possibile solo al regista, alla Adjani (che si è immedesimata talmente tanto nella parte da rischiare quasi di impazzire, dichiarando in seguito "è un film che non andava fatto") e probabilmente a tutte quelle donne che si sentono psicologicamente affini alla protagonista (e con le quali, ovviamente, spero di non aver mai niente a che fare nella mia vita).

Pur non appartenendo io a nessuna delle categorie umane sopra citate, posso per lo meno provare a decifrare quest'opera contorta e affascinante, operazione doppiamente ardua visto che all'enigmaticità intrinseca del film, non giova di certo un doppiaggio italiano che è stato rimaneggiato almeno due volte, e nelle cui versioni quasi tutte le battute (specialmente quelle chiave) sono state parzialmente o interamente modificate.

La protagonista, Anna, è un'anima lacerata tra "la fede e il caso" ("la fede non può escludere il caso ma il caso non può spiegare la fede, la mia fede non può supplire totalmente al caso ma il caso non mi ha dato abbastanza fede"), alla ricerca disperata di un appiglio, di un'ancora per la sua deriva esistenziale, forse di un Dio che non riesce a trovare, a comprendere, a possedere, perchè irrimediabilmente smarrita in un mondo che sembra essere totalmente in preda al caos.
Ecco allora che subentra la necessità della fede, una fede che non può che avere come oggetto sè stessa, un'adesione totale al proprio Io ("...perchè possa dire "io per me", "io per me"", è la frase che ripete più volte nel filmino visionato da Mark in cui strapazza sadicamente una sua allieva di danza), un bisogno vitale di indipendenza che la porterà ad allontanare da sè malamente i due uomini che ama (e che la amano a loro volta) nel tentativo di sottrarsi all'inautenticità della vita affettiva, al compromesso richiesto da quest'ultima, cioè lo sdoppiamento fra l'essere-per-sè e l'essere-per-l'altro.

 L'allontanamento dall'altro da sè e il progressivo sprofondamento solipsistico nel proprio Io, il bisogno di trovare in sè stessa il proprio punto di riferimento, la porteranno ad una sorta di partenogenesi spontanea, al concepimento autonomo di un figlio, cosa che non può non far tornare alla mente un ben noto episodio biblico; e che non può neanche non suscitare una certa inquietudine, se si pensa che ciò che vien fuori dalle viscere della donna, forse, è esattamente il contrario di ciò che venne partorito dal ventre Mariano.
Forse la mente della donna è ormai talmente sconvolta, la sua interiorità talmente corrotta e dilaniata, che, convinta di aver trovato Dio in sè stessa, in realtà ciò che ha dato alla luce non è altro che il frutto della sua mostruosità interiore: un mostro tentacolare di forma inizialmente fallica (tra l'altro secondo Lacan la donna vedrebbe nel proprio figlio una sorta di protesi fallica, da qui il suo desiderio di maternità e la gelosia possessiva nei confronti della propria "creatura"-ma ciò che dice Lacan ormai interessa a pochi), che passerà attraverso una serie di metamorfosi finendo per trasformarsi nel doppio di Mark, il maritino da lei inizialmente abbandonato e disposto a far di tutto pur di riconquistarla; ovviamente una versione malvagia di Mark, una proiezione del suo desiderio di come dovrebbe essere Mark.
Ecco quindi che forse la "possessione" del titolo non si riferisce a quella diabolica, divina o comunque metafisica, ma all'amore come necessità di possedere completamente l'altro, assimilarlo, crearlo a propria immagine e somiglianza; forse ciò che si ama, sembra voler dire Zulawski, non è realmente l'altro da sè, ma la proiezione interiore dell'altro: così come Anna (la protagonista) finirà per partorire un doppio malvagio di Mark, allo stesso modo quest'ultimo incontrerà e si innamorerà (ovviamente ricambiato) di una sosia di Anna, un doppio "buono" della moglie, che ormai ha cominciato a sentire sempre più lontana da sè.
Ma Mark ed Anna ormai sono due anime perdute, e non basterà l'incontro con la Anna "angelica" a trattenere Mark dallo sprofondare nell'abisso insieme alla vera Anna, assecondandola addirittura nell'omicidio e seguendola nel suo percorso di autodistruzione.

Ma perchè Anna crede di aver partorito Dio, quando invece si tratta probabilmente dell'esatto opposto, del Male assoluto? Forse perchè, vuol dirci Zulawski, l'uomo è talmente privo di riferimenti spirituali, talmente disorientato nel caos che dominerebbe l'esistenza umana, da scambiare Dio per il Diavolo? O forse perchè (ipotesi ancora più agghiacciante) Dio è proprio quella cosa lì, quel mostro partorito da Anna che alla fine inizierà ad andare in giro seminando il Male nel mondo? E sarà forse per questo che l'uomo è inevitabilmente votato al Male? (si pensi alla vecchietta che esulta inspiegabilmente di fronte all'esplosione dell'appartamento, e in generale alla città che fa da sfondo alla vicenda: Berlino, simbolo di schizofrenia così come delle peggiori nefandezze partorite dall'animo umano).

E forse è qui che il film si ingarbuglia un po', nel tentativo di coniugare la riflessione "metafisico"-esistenziale a quella psicologica e sentimentale. In ogni caso, uno dei pochi film che meritano davvero l'appellativo di "(quasi) capolavoro estremo e maledetto".

lunedì 27 agosto 2012

Diabel (Il diavolo), di A. Zulawski



Il film è una favola filosofica e allegorica di enorme impatto visivo ed emotivo, in cui l'uso costante e volutamente rozzo di una macchina a mano traballante e ubriaca, usata con la stessa delicatezza di un'accetta, diventa espressione del caos che domina tutto quanto; il modo in cui il regista mette in scena un mondo totalmente impazzito e corrotto mette i brividi per la violenza forsennata della messa in scena, e la scena d'apertura nel convento diroccato, che ci catapulta immediatamente in una Polonia (e in un mondo) infernale e in preda al caos, è un pezzo di cinema visionario da mozzare il fiato, come capita raramente di vederne.
La macchina a mano, utilizzata per tutto il film, tampina il protagonista senza staccarsene un secondo, senza lasciare un attimo di tregua nè a lui nè soprattutto allo spettatore, ruota vorticosamente attorno ai corpi degli attori in preda a spasmi epilettici, ai quali il regista impone una recitazione che coinvolge tutto il corpo e che addirittura sconfina nella danza, secondo le premesse del teatro povero di Grotowsky (che sarà un po' un punto di riferimento per tutto il cinema di Zulawski), e facendo sì che tutto il film diventi alla fine una sorta di danza isterica fra corpi e macchina da presa. Un film che violenta lo spettatore per poi svuotarlo (come tutti i migliori del regista del resto), una messinscena talmente esasperata da sfiorare il ridicolo (ma, a differenza di Russell, consapevolmente, e comunque senza che ciò costituisca un difetto), una potenza visionaria sconcertante e una colonna sonora altrettanto potente ed esaltante del compositore di fiducia di Zulawski, Andrej Korzinsky.
A mio avviso, l'altro capolavoro di Zulawski insieme a "Possession", al quale forse, anche se non vorrei esagerare, può addirittura essere considerato superiore.

Chiedo scusa se l'analisi che ho tentato di farne qui sotto, e che risale a qualche tempo fa, potrebbe risultare piuttosto faticosa alla lettura (e soprattutto se potrebbe contenere diverse cazzate, cosa assai probabile), ma è il frutto di un lavoro altrettanto faticoso, avendo il sottoscritto visto il film in ligua originale, ed avendo passato due giorni a tradurre i sottototitoli in inglese vocabolario alla mano. Anticipo anche che ci saranno degli spoiler, ma un vero cinefilo a mio avviso non dovrebbe curarsene! ;)

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Secondo film di Zulawski dopo La terza parte della notte, censuratissimo in patria, dove fu sequestrato dal governo polacco per essere rimesso in circolazione solo alla fine degli anni ottanta, e per giunta con una scarsissima distribuzione. Secondo le autorità, il motivo del sequestro della pellicola sarebbe stato l'alto livello di violenza, crudeltà e perversione presenti nel film; secondo Zulawski, ovviamente, no. Lo stesso regista riferisce infatti sarcasticamente ciò che il ministro della cultura dell'Unione Sovietica avrebbe affermato: "sospettiamo che non sia realmente un film sul 18esimo secolo, ma non ne siamo sicuri". Secondo quanto riferito dallo stesso Zulawski infatti, l'idea di fare questo film sarebbe sorta in seguito a un episodio avvenuto verso la fine degli anni sessanta in Polonia, quando un gruppo di pacifici studenti, durante una manifestazione contro la censura furono provocati dalle autorità comuniste, le quali utilizzarono l'evento come pretesto per una dura repressione in seguito alla quale molti degli studenti furono incarcerati. Ovviamente, non potendo riferirsi esplicitamente all'accaduto, Zulawski decise di spostare l'azione alla fine del 18esimo secolo, riempiendolo però di riferimenti alla situazione politica attuale.

Il film è infatti ambientato durante l'invasione prussiana che precedette la seconda spartizione della Polonia, approvata dal Sejm (il Parlamento polacco), e che contribuì, insieme alle due successive spartizioni, a gettare la Polonia nel caos e a metter fine alla Confederazione Polacco-Lituana. La condizione di caos morale assoluto rappresentata da Zulawski, e attribuita all'occupazione prussiana, sarebbe ovviamente quella della Polonia contemporanea al regista e al regime comunista, simboleggiato proprio dal Diavolo, che qui appare nei panni di una spia del nuovo governo che sta insediandosi nel territorio conquistato, e che spingerà il protagonista Jakub, un giovane cospiratore (probabile riferimento proprio ai manifestanti incarcerati di cui sopra) precedentemente arrestato perchè colpevole di regicidio, a macchiarsi di una serie di delitti per poi condannarlo alla dannazione, più o meno come si comportarono le autorità comuniste secondo l'aneddoto sopra riportato.

Tuttavia, come dirà il capocomico di un gruppo di commedianti che Jakub incontrerà durante il suo vagabondare per la foresta, simbolo di caos e smarrimento, a cosa può essere attribuita la decadenza, al Male che genera la debolezza, oppure alla debolezza che rende possibile la degenerazione nel Male? Con questa domanda credo che Zulawski intenda chiedersi se la decadenza della Polonia, terra caratterizzata da una storia particolarmente drammatica e infelice, sia dovuta alla dominazione in sè (in questo caso si parla sempre del regime comunista), oppure a una debolezza "costitutiva" della nazione stessa, dato che le quattro spartizioni che metteranno fine alla Confederazione polacco-lituana saranno rese possibili, almeno secondo gli storici, proprio grazie all'incapacità del Paese di autogovernarsi, condizione che lo avrebbe reso estremamente vulnerabile (una delle principali cause del quale fu il famoso diritto di veto introdotto sotto il regno di Augusto III).

Ma il caos morale rappresentato da Zulawski, a mio avviso, non è soltanto quello che caratterizza la condizione storico-politica del suo Paese, ma quello del mondo in generale, un mondo impazzito e abbandonato da Dio in cui tutto è permesso, e in cui l'uomo può dar sfogo alla sua naturale inclinazione all'immoralità e alla perversione, che del resto è quello che ritroviamo in tutti i suoi film; ed è qui che a mio avviso la denuncia politica cede il passo a una riflessione filosofica di matrice dostoevskijana (lo scrittore russo è un'ossessione personale del regista). Il Diavolo stesso presenta delle sembianze dostoevskijane, e le crisi epilettiche alle quali questi andrebbe soggetto di tanto in tanto durante il film, precedute da un senso di euforia e onnipotenza ("prima degli attacchi mi sento forte come un giovane Dio") potrebbero rimandare proprio a quelle di cui soffriva lo scrittore e che Freud interpreterà come forma di autopunizione per il desiderio di morte del padre odiato: che questo "padre" possa essere, nel film, proprio il Dio "ucciso" dall'uomo?
Se Dio è morto tutto è possibile, in un mondo in cui ormai non esistono più nè morali nè leggi anche uccidere diventa un'azione non giudicabile moralmente, un semplice atto di "pulizia". Questo è ciò che dirà il Diavolo a Jakub, dopo avergli mostrato lo stato di corruzione morale in cui versa ormai il suo paese e soprattutto il suo mondo affettivo, dopo avergli mostrato cioè che gli amici per i quali si era sacrificato lo hanno tradito (il suo migliore amico, anche lui ex-cospiratore, si è sposato con la sua donna), che suo padre (ancora il padre) si è suicidato probabilmente per non voler vivere in un paese che stava degenerando in quel modo, che la madre (forse allegoria della Polonia stessa) è diventata una prostituta e che la sorella sta seguendo la sua stessa strada. Il diavolo sfrutterà dunque lo stato di profonda prostrazione e insofferenza che faranno lentamente sprofondare nella follia Jakub, incitandolo così, solo allo scopo di farsi consegnare alla fine la lista degli altri cospiratori, a uccidere a uno ad uno amici e familiari.
Questi può pertanto essere considerato una sorta di doppio malvagio di Jakub, di "sosia" dostoevskijano, l'incarnazione di quel titanismo che porterebbe l'uomo a sostituirsi a Dio diventando un Dio egli stesso, un po' come nel caso del Raskolnikov di Delitto e castigo o ne I fratelli Karamazov, tendenza che dunque viene fatta coincidere col Male (sarà un caso che lo stesso personaggio simboleggi contemporaneamente il regime comunista...?).
Jakub è totalmente succube del Male, ma sa che ormai l'unico modo per rivedere la luce è quello di andare sempre più a fondo nell'oscurità, pertanto decide di portare a termine il suo lavoro di "pulizia" del mondo, ma lo fa muovendosi come un "boscaiolo che trovandosi in mezzo a una fitta rete di rami intricati", per andare avanti, e quindi per trovare la via d'uscita, non può fare altro che tagliare (questa è proprio l'immagine che usa il Diavolo per convincerlo a proseguire nella sua azione).

Jakub può essere considerato quasi una sorta di Amleto nichilista: mentre l'eroe (o anti- tale) shakespeariano vuole compiere un atto di giustizia vendicando la morte del padre, Jakub invece si muove in un mondo in cui non c'è più nè giusto nè sbagliato, e in cui pertanto uccidere diventa un'azione non giudicabile moralmente; egli non sa quello che fa, è spinto solo da una cieca volontà di rivalsa, di vendetta, senza sapere bene neanche su cosa, il suo agire nasce soltanto da una furia immediata e convulsa, totalmente priva della profonda riflessività che in Amleto minaccia quasi di inibire l'azione, e che ne ha fatto proprio il simbolo del prevalere del pensiero su quest'ultima (e forse per questo in una scena vediamo Jakub uccidere, in un impeto di furia irriflesso, proprio l'attore che fino a poco prima aveva impersonato Amleto nella recita dei commedianti).

Ma come del resto accade anche in "Possession", altra vetta di Zulawski, l'uomo è talmente smarrito nel caos del mondo da scambiare il Diavolo per Dio, e questo è il motivo per cui Jakub non vedrà mai la luce come sperato, come ci suggerisce il finale estremamente simile a quello del film appena citato, in cui egli si arrampicherà disperatamente su un albero senza però riuscire a raggiungerne la cima (come Sam Neill che, in "Possession", dopo essere arrivato in cima alla scala si ributta di sotto).

Il titanismo e la deificazione dell'uomo portano alla distruzione, mentre l'unico modo per salvarsi e uscire dall'oscurità e dal caos è la purezza, la fede, rappresentata da una giovane suora che accompagna Jakub nel suo viaggio per tutto il film, e che di tanto in tanto cercherà goffamente di "sedurlo", ovviamente senza alcun risultato; il personaggio della suora sembra rimandare proprio agli umili dostoevskijani, a quei personaggi candidi e ingenui, anche un po' stupidi, il cui più celebre esempio è il principe Myskin de L'idiota, che non riescono a comprendere la presenza del Male nel mondo e che pertanto tentano di sobbarcarseli tutti attraverso l'abnegazione e la fede. E sarà proprio lei, la giovane suora, rimasta sola con un demente, a uccidere alla fine il Diavolo e a danzare insieme a quello intorno al cadavere di quest'ultimo.



The devils, di K. Russell


Giusto per proseguire il discorso "Russell"...

Lo vidi per la prima volta a 12 anni (!), e da quel momento, dopo essere rimasto folgorato anche da "The music lovers" e "Tommy", decisi che Ken Russell sarebbe diventato il mio regista preferito, e in effetti lo fu per diversi anni.
Oggi l'ho molto ridimensionato (vedasi il post immediatamente precedente), ma "I diavoli" rimane uno dei suoi pochi film che ancora adesso riesco ad apprezzare e a salvare quasi del tutto.
Non è certo un'opera perfetta: senza qualche compiacimento di troppo (specie nella blasfemia), con qualche provocazione in meno, con un maggior contegno nelle macchiettizzazioni e nei manicheismi che rischiano di annacquare a tratti la forza dell'invettiva, e magari con un po' di retorica e di teatralizzazione in meno (soprattutto nella recitazione), Russell avrebbe confezionato un'opera artisticamente più matura.

Ma tutto questo distacco critico, ahimè, va a farsi benedire quando, ogni volta che lo rivedo, non riesco a non entusiasmarmi come un bambino di fronte a questo autentico spettacolo per gli occhi, tanto ripugnante quanto dannatamente attraente, in cui lo spirito del kolossal storico si coniuga in maniera stridente con un (pessimo) gusto estetico decadente; così come di fronte alla maestosità di una messinscena nella quale si fondono alla perfezione le incredibili scenografie di cartapesta di Derek Jarman (ispirate a "Metropolis" di Lang), gli altrettanto assurdi costumi di Shirley Russell (rifacentisi invece a "Aleksander Nevskij" di Ejseinstein), il caos sonoro, infernale e dissonante (forse con echi "varesiani") di Peter Maxwell-Davies, e ovviamente, su tutto, il talento visivo del regista, che riesce a fondere tutto ciò ricreando sullo schermo un universo visivo che sembra uscire direttamente dalle tele di Bosch, Brueghel e Goya, facendo avvertire quasi sensorialmente allo spettatore lo spirito di un'epoca corrotta, oscura e malata, e di un evento storico in cui le più basse pulsioni umane hanno trovato libero sfogo.
A tutto ciò, si aggiunge un finale che sembra la versione sonorizzata di quello de "La passione di Giovanna d'Arco" (e il riferimento è palese), girato da un Dreyer strafatto di cocaina e in pieno deliquio mentale.

Non un capolavoro quindi ma, datemi pure dello scellerato, personalmente preferisco l'approccio espressionista e "sensoriale" di Russell, pur con tutte le sue imperfezioni, alla maniacalità filologica e all'illustrativismo di alcuni film di Visconti.

domenica 26 agosto 2012

Ken Russell, chi era costui?

Lo confesso. A volte sono arrivato quasi al punto di augurarmi la morte del signore in questione, nella speranza che in questo modo, almeno in Italia (perchè mi è parso di capire che in Inghilterra fosse considerato anche da vivo quasi una specie di gloria nazionale), il seppur triste avvenimento diventasse un'occasione per riscoprirlo e ricominciare a parlare della sua opera, non tanto per il suo valore quanto per le controversie, le polemiche e i pareri fortemente contrastanti che ancora adesso questa continua a suscitare, per lo meno presso quella ristretta cerchia di persone (critici, intellettuali o semplici cinefili) che si interessano ancora a lui.
Invece, il triste ma inevitabile evento si è verificato, ma ciò non è servito a far sì che il suo cinema tornasse agli onori della ribalta, come invece lo era stato abbondantemente tra gli anni '60 e '70.
Che belli i tempi in cui "I diavoli" faceva licenziare i recensori che ne parlavano bene, costò una scomunica da parte della Chiesa a Oliver Reed e Vanessa Redgrave, provocò una lite fra il regista e il critico Alexander Walker durante la quale il primo tirò un gancio al secondo, e poi venne censurato, sequestrato e dissequestrato, scandalizzando il mondo intero ed entrando così a far parte dell'elenco delle pellicole più maledette della storia del cinema...o in cui la famosa lotta tra Oliver Reed e Alan Bates nudi in "Donne in amore" scandalizzò i benpensanti e (molto probabilmente) fece arrapare parecchie signorine.

Ma attenzione a non cadere in una trappola in qualche modo ordita dallo stesso regista: Russell era un esibizionista, un egocentrico, ansioso di stare sotto i riflettori, e alcune sue provocazioni risultano specialmente oggi piuttosto irritanti e gratuite. Quindi non cadiamo nella tentazione di rievocare nostalgicamente i fasti di quello che alcuni vorrebbero come un "grande maledetto" della storia del Cinema: di fronte a un Ferreri o un Bunuel, le provocazioni di Russell impallidiscono risultando spesso puerili e prive di finezza.
E allora perchè, all'inizio del post, avrei auspicato che si tornasse a parlare di lui? Proprio per questo, perchè il suo è un cinema imperfetto e "difettoso" già alla radice, e quindi cercare di individuarne i difetti potrebbe aiutare a separare gli aspetti positivi da quelli negativi, e quindi essere fruttuoso anche per una ricerca volta a farne risaltare i pregi.
Perchè dico che il suo cinema sarebbe difettoso alla radice? Forse per via di una certa mancanza di riflessività che a volte non gli ha permesso di essere completamente lucido e padrone delle sue scelte stilistiche. L'istintiva impetuosità del suo stile, la tendenza all'estetismo e alla ricerca della bellezza visiva (anche nei suoi eccessi più ripugnanti), spesso sembrano più fini a sè stesse che effettivamente richieste dalle esigenze della messinscena, esplosioni immediate e non meditate dell'immaginario debordante del regista (per quanto innegabilmente affascinanti); stessa cosa dicasi per la recitazione che imponeva agli attori, molto spesso inspiegabilmente teatrale, enfatica e tendente al ridicolo. E quei siparietti kitsch girati con uno stile da musical di rivista, come la scena dei cannoni sull'Ouverture de "L'altra faccia dell'amore", o quella del balletto tra Cosima Wagner e Gustav Mahler ne "La perdizione", come bisogna prenderli, con un sorrisetto divertito, o come delle imbarazzanti e iper-pacchiane cadute di stile? E poi, "I diavoli" è un film schifosamente compiaciuto oppure no? Profondo o solo facilmente effettistico? Forse un po' l'uno e un po' l'altro? O ancora: il tentativo di analizzare la psicologia e l'arte di geni come Tchaikovsky, Mahler, Wagner e Liszt, su cui si fonda tutta la sua trilogia dedicata ai maestri del Romanticismo musicale, è credibile e riuscita, o pacchiana e naif? Insomma, 'sto Russell era un coglione, un geniaccio o semplicemente un talento sprecato? Se vi fate un giretto per la rete forse vi accorgerete che il numero delle persone che propendono per le prime o per le seconde ipotesi è pressochè identico, e che tutte queste domande non hanno ancora trovato una risposta definitiva, forse perchè c'è qualcosa di vero in ciascuna di queste osservazioni, forse perchè sono l'espressione di contraddizioni effettivamente presenti e coesistenti all'interno del cinema di Russell.

 E allora, in poche parole, probabilmente c'è ancora qualcosa da dire su questo Russell, forse gli spunti di riflessione che offre il suo cinema sono ancora abbastanza vivi e stimolanti da consentirgli di uscire dal dimenticatoio nel quale ancora adesso si trova...

O forse, se ho scritto questo post, è solo perchè non sopporto l'idea che i dubbi e i dilemmi di cui sopra, mi impediscano di lasciarmi elettrizzare fino infondo, come un tempo, dalla bellezza di film come "L'altra faccia dell'amore" o "I diavoli", opere che in passato, quando non ero ancora del tutto entrato nell'età della ragione (sempre ammesso che ora lo sia), ho amato incondizionatamente...