Cine(atro)city non è altro che uno degli infiniti blog che parlano di cinema, con una predilezione per un certo tipo di cinema: un cinema underground, "diverso", bizzarro, eccessivo, a volte estremo, misconosciuto o dimenticato. In una parola: il cinema che piace a me.
martedì 28 agosto 2012
Possession, di A. Zulawski
Visto che si parlava di Zulawski, non si può prescindere da quello che è generalmente considerato il suo masterpiece.
Ormai espressioni come "malato", "eccessivo", "disturbante" o "sconvolgente viaggio negli inferi della psiche umana", sono diventate degli insopportabili clichè. Beh, forse bisognerebbe sforzarsi di liberarle dallo stato di usura in cui si trovano, e cercare di riscoprire il loro senso apposta per questo film, per il quale probabilmente non esisterebbero definizioni più adatte.
Un film che probabilmente è venuto fuori a Zulawski come un conato di vomito, come espressione di un grumo di tensioni talmente violente e intollerabili da dover essere espulse immediatamente (lo ha scritto in appena una settimana), insomma, se non lo avesse fatto probabilmente sarebbe esploso (e la "sottile" allusione ad un attacco di colìte non è casuale, visto che in qualche modo il film affonda, seppur simbolicamente, nella "materia fecale" dell'essere umano).
Ma l'urgenza espressiva del regista, il suo bisogno di sfrondare e comprendere fino infondo la psiche contorta e devastata della protagonista (nella quale si potrebbe intravedere forse una proiezione della moglie del regista stesso, che infatti ha scritto il film subito dopo il divorzio), paiono talmente violenti da andare a tratti a discapito della chiarezza, dando vita a un film in parte confuso e la cui totale comprensione forse è risultata possibile solo al regista, alla Adjani (che si è immedesimata talmente tanto nella parte da rischiare quasi di impazzire, dichiarando in seguito "è un film che non andava fatto") e probabilmente a tutte quelle donne che si sentono psicologicamente affini alla protagonista (e con le quali, ovviamente, spero di non aver mai niente a che fare nella mia vita).
Pur non appartenendo io a nessuna delle categorie umane sopra citate, posso per lo meno provare a decifrare quest'opera contorta e affascinante, operazione doppiamente ardua visto che all'enigmaticità intrinseca del film, non giova di certo un doppiaggio italiano che è stato rimaneggiato almeno due volte, e nelle cui versioni quasi tutte le battute (specialmente quelle chiave) sono state parzialmente o interamente modificate.
La protagonista, Anna, è un'anima lacerata tra "la fede e il caso" ("la fede non può escludere il caso ma il caso non può spiegare la fede, la mia fede non può supplire totalmente al caso ma il caso non mi ha dato abbastanza fede"), alla ricerca disperata di un appiglio, di un'ancora per la sua deriva esistenziale, forse di un Dio che non riesce a trovare, a comprendere, a possedere, perchè irrimediabilmente smarrita in un mondo che sembra essere totalmente in preda al caos.
Ecco allora che subentra la necessità della fede, una fede che non può che avere come oggetto sè stessa, un'adesione totale al proprio Io ("...perchè possa dire "io per me", "io per me"", è la frase che ripete più volte nel filmino visionato da Mark in cui strapazza sadicamente una sua allieva di danza), un bisogno vitale di indipendenza che la porterà ad allontanare da sè malamente i due uomini che ama (e che la amano a loro volta) nel tentativo di sottrarsi all'inautenticità della vita affettiva, al compromesso richiesto da quest'ultima, cioè lo sdoppiamento fra l'essere-per-sè e l'essere-per-l'altro.
L'allontanamento dall'altro da sè e il progressivo sprofondamento solipsistico nel proprio Io, il bisogno di trovare in sè stessa il proprio punto di riferimento, la porteranno ad una sorta di partenogenesi spontanea, al concepimento autonomo di un figlio, cosa che non può non far tornare alla mente un ben noto episodio biblico; e che non può neanche non suscitare una certa inquietudine, se si pensa che ciò che vien fuori dalle viscere della donna, forse, è esattamente il contrario di ciò che venne partorito dal ventre Mariano.
Forse la mente della donna è ormai talmente sconvolta, la sua interiorità talmente corrotta e dilaniata, che, convinta di aver trovato Dio in sè stessa, in realtà ciò che ha dato alla luce non è altro che il frutto della sua mostruosità interiore: un mostro tentacolare di forma inizialmente fallica (tra l'altro secondo Lacan la donna vedrebbe nel proprio figlio una sorta di protesi fallica, da qui il suo desiderio di maternità e la gelosia possessiva nei confronti della propria "creatura"-ma ciò che dice Lacan ormai interessa a pochi), che passerà attraverso una serie di metamorfosi finendo per trasformarsi nel doppio di Mark, il maritino da lei inizialmente abbandonato e disposto a far di tutto pur di riconquistarla; ovviamente una versione malvagia di Mark, una proiezione del suo desiderio di come dovrebbe essere Mark.
Ecco quindi che forse la "possessione" del titolo non si riferisce a quella diabolica, divina o comunque metafisica, ma all'amore come necessità di possedere completamente l'altro, assimilarlo, crearlo a propria immagine e somiglianza; forse ciò che si ama, sembra voler dire Zulawski, non è realmente l'altro da sè, ma la proiezione interiore dell'altro: così come Anna (la protagonista) finirà per partorire un doppio malvagio di Mark, allo stesso modo quest'ultimo incontrerà e si innamorerà (ovviamente ricambiato) di una sosia di Anna, un doppio "buono" della moglie, che ormai ha cominciato a sentire sempre più lontana da sè.
Ma Mark ed Anna ormai sono due anime perdute, e non basterà l'incontro con la Anna "angelica" a trattenere Mark dallo sprofondare nell'abisso insieme alla vera Anna, assecondandola addirittura nell'omicidio e seguendola nel suo percorso di autodistruzione.
Ma perchè Anna crede di aver partorito Dio, quando invece si tratta probabilmente dell'esatto opposto, del Male assoluto? Forse perchè, vuol dirci Zulawski, l'uomo è talmente privo di riferimenti spirituali, talmente disorientato nel caos che dominerebbe l'esistenza umana, da scambiare Dio per il Diavolo? O forse perchè (ipotesi ancora più agghiacciante) Dio è proprio quella cosa lì, quel mostro partorito da Anna che alla fine inizierà ad andare in giro seminando il Male nel mondo? E sarà forse per questo che l'uomo è inevitabilmente votato al Male? (si pensi alla vecchietta che esulta inspiegabilmente di fronte all'esplosione dell'appartamento, e in generale alla città che fa da sfondo alla vicenda: Berlino, simbolo di schizofrenia così come delle peggiori nefandezze partorite dall'animo umano).
E forse è qui che il film si ingarbuglia un po', nel tentativo di coniugare la riflessione "metafisico"-esistenziale a quella psicologica e sentimentale. In ogni caso, uno dei pochi film che meritano davvero l'appellativo di "(quasi) capolavoro estremo e maledetto".
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