Cine(atro)city non è altro che uno degli infiniti blog che parlano di cinema, con una predilezione per un certo tipo di cinema: un cinema underground, "diverso", bizzarro, eccessivo, a volte estremo, misconosciuto o dimenticato. In una parola: il cinema che piace a me.
mercoledì 29 agosto 2012
Konstantin Lopushansky: Tarkovskij dopo l'Apocalisse.
Konstantin Lopushansky inizia la sua carriera come assistente alla regia di Tarkovskij per Stalker, collaborazione che influenzerà profondamente tutta la sua, purtroppo scarna, produzione artistica, tanto che da molti viene considerato un vero e proprio discepolo del regista russo.
Lo stile e le tematiche del cinema del maestro infatti, in particolar modo quelle di Stalker, sono rintracciabili nelle tre opere principali che compongono la sua filmografia, due delle quali ("Pisma myortvogo cheloveka-Letters from a dead man" e "Gadkie lebedi-The ugly swans") sono tratte proprio da due novelle dei fratelli Strugatsky, gli stessi che hanno sceneggiato il summenzionato film di Tarkovskij.
Se da un lato l'influenza del maestro scade di tanto in tanto in un manierismo un po' plateale a tratti forse addirittura irritante (il suo primo film "Letters from a dead man" è dominato da una fotografia costantemente virata in seppia, e in generale nei suoi film ricorrono immagini di locali invasi dall'acqua con macerie galleggianti che sembrano presi pari pari dai film di Tarkovskij), in una tendenza a un ingenuo didascalismo, o addirittura a un tono fasitidiosamente predicatorio, tanto da far pensare di tanto in tanto ad un malriuscito scimmiottamento del cinema del maestro, dall'altro, la sincerità dell' ispirazione che traspare spesso dalla visceralità delle sue immagini, suggeriscono in realtà una personalità artistica autonoma e degna di interesse.
Lopushanskij infatti pare aver introiettato lo spirito di Tarkovskij, adattandolo però ad una sensibilità e una poetica del tutto personali, che fanno sì che il suo cinema prenda una strada personale e diversa da quella del maestro.
La principale differenza fra i due autori consiste nel pessimismo cosmico, nell'atmosfera cupa, angosciosa, opprimente e spesso malsana che si respira nei film di Lopushanskij, nella visione disperata e apocalittica dell'uomo, in un grezzo espressionismo che prendono il posto della raffinata poesia, dei barlumi di speranza (per quanto sofferta), e anche della profondità umana e filosofica di Tarkovskij.
Tutt'e tre le opere principali del regista (Letters from a dead man, Posetitel muzeya, The ugly swans)sono ambientate in un futuro post-atomico(anzi, in un'epoca imprecisata che richiama palesemente il nostro presente), in un mondo divenuto un' immensa discarica in cui sterminati paesaggi di rifiuti e rottami si perdono a vista d'occhio, vuoi in seguito a una catastrofe nucleare ("Letters from a dead man"), vuoi per lo scioglimento dei ghiacciai ("Posetitel muzeya-Visitor of a museum"), vuoi per misteriosi mutamenti climatici dovuti ad alterazioni dell'ecosistema ("Gadkie lebedi").
L'ossessione del regista sembra essere principalmente la post-umanità. I suoi film prendono le mosse dalla desolata constatazione dall'autodistruzione del genere umano, vittima di una mancata evoluzione spirituale che compensasse e sorreggesse quella tecnico-scientifica, e dunque dell'inizio di ciò che dovrebbe essere una nuova era, la nascita di una nuova umanità. Ma se ancora il finale di "Letters from a dead man" ( nel quale viene estrapolato dal manifesto Russell-Einstein l'appello a "ricordare la nostra umanità, e a dimenticare tutto il resto") lascia intravedere un barlume di speranza, con lo scienziato protagonista che si prende cura, come una sorta di nuovo Messia (figura ricorrente i tutti e tre i film) di un gruppo di bambini abbandonati, nei due film successivi, i discendenti, i successori dell'uomo, sono delle creature la cui unica prerogativa è la consapevolezza del vuoto, del Nulla alla base della condizione umana, della tragicità insita nel suo essere.
Il più pessimista è il secondo "Posetitel muzeya", sicuramente il migliore dei tre, film allucinato e allucinante con cui Lopushansky sfiora il capolavoro, l'unico tra l'altro ad essere ideato oltre che sceneggiato dal regista stesso (e ormai diventato un mio personalissimo super-cult).
In un mondo ridotto a un'immensa discarica radioattiva illuminata da luci rossastre, confinati in una riserva in cui lavorano come operai vi sono i "degenerati", sorta di esseri sub-umani, di scarti, figli dell'umanità stessa, dediti a un culto demenziale basato su assurde credenze teorizzate in scritti custoditi dai "sacerdoti", una religione che prevede una sola preghiera, consistente nel battere i pugni contro un muro implorando di essere "liberati" (cioè di morire), e nella quale viene profetizzato l'arrivo di un Messia "monco" (che arriverà), privo di poteri sovrumani, in grado soltanto di caricare su di sè il dolore dei supplici e mandato a intercedere presso il Padre per esaudire la loro richiesta, dal quale ovviamente non riceverà nessuna risposta e che finirà per vagare per montagne di spazzatura, urlando a un Dio che si nega tutto il dolore sordo dell'uomo.
Qualcosa di simile vale per i "Gadkie lebedi" (i "brutti cigni") del film omonimo, ragazzini dotati di un'intelligenza superiore, iniziatori di una nuova razza probabilmente destinata a soppiantare la nostra, ma la cui consapevolezza superiore li porta soltanto alla coscienza del Nulla di cui è fatto l'uomo ("...Qui, nel punto della maggiore indefinibilità, della non garanzia e della non confermazione dell'esistenza umana per la prima volta appare la nota chiarezza, s'illumina la notte del mondo. Il senso terribilmente reale della nostra esistenza non nel mondo, ma da qualche parte tra i mondi, non è nella delimitata realtà, ma è nello spostamento e formazione, non è nell'assestamento casalingo, ma è nell'insensato pellegrinaggio...è stato possibile solo rovesciare il velo di Maya e osservare tutto dalla parte opposta, non da quella parte che ti culla e ti dona un senso di calma, ma dalla parte del Niente, che rivela la nostra presenza vitale come un avanzamento del Niente."), tematica affascinante ma che purtroppo non viene sviluppata del tutto lasciando il film un po' irrisolto.
Lopushanskij è forse l'erede più originale di Tarkovskij (almeno fra i pochi pervenuti), anche se non il più grande (un Sokurov gli è probabilmente superiore): il suo cinema è imperfetto ma viscerale, le sue immagini veicolano un'angoscia sincera e nascono da un'urgenza espressiva che a tratti diventa quasi esigenza didattica.
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molto molto bene. complimenti e grazie
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