Il film è un angoscioso incubo post-atomico ambientato in una periferia urbana ridotta a un'enorme discarica radioattiva, irradiata qua e là da fuochi rossastri coi quali i pochi superstiti dell'umanità cercano di tener lontani dalle loro misere abitazioni i cosiddetti "degenerati", essere sub-umani e deformi, probabilmente a causa delle radiazioni tossiche, che vivono e lavorano segregati in claustrofobiche miniere invase da luci infernali.
Questi ultimi, come dei nuovi Cristiani all'epoca della caduta dell'Impero, sono dediti a uno strano culto in un tempio abbandonato (il "Museo" cui fa riferimento il titolo), culto che prevede un'unica preghiera consistente nell'urlare una sola frase: "lasciaci uscire da qui" (ovvero "lasciaci morire"), e basato su scritture in cui si parla dell'estraneità dell'uomo a sè stesso, della sua incapacità di essere padrone del proprio destino ("Dio si è nascosto e dappertutto regna l'inferno, ogni cosa che l'uomo fa è inferno"), di una misteriosa collina sulla quale avrà luogo l'inizio di una nuova era, e soprattutto in cui si profetizza la venuta di un nuovo Messia inviato per farsi portavoce delle sofferenze dei supplici presso il Signore, allo scopo di esaudire la loro preghiera: "Egli si farà carico delle vostre suppliche presso la sede della giustizia...Ma egli non comprenderà il suo mistero nè comprenderà il suo percorso. Egli dovrà essere sordo e cieco come tutti gli incrollabili alla fine dei tempi. Ma percepirà le ali del suo angelo, il nome del suo angelo è Dolore. Sia realizzata la profezia poichè essa dice: un propiziatore giungerà nei giorni finali, la sua venuta gli scatenerà una grande sofferenza. Non avrà null'altro se non questa. Non avrà il dono della profezia, nè della guarigione, nè il dono della provvidenza, nè il dono delle lingue. Ma dovrà essere ascoltato per via delle preghiere dei disperati. Nel giorno decisivo intercederà per voi e sarà l'ultimo, non potrà esserci nessun altro. Amen".
Anche il nuovo Messia dunque sarà vittima della maledizione che avrebbe colpito l'umanità intera: l'alienazione da sè, l'incapacità di comprendere sè stessa e la meta del proprio percorso, che l'avrebbe portata all'autodistruzione.
"Se tutto è già scritto, se tutto è previsto, allora non siamo altro che marionette", vittime di una storia destinata a ripetersi in eterno e dalla quale l'uomo pare estromesso in quanto soggetto. I degenerati dunque, non rappresenterebbero altro che l'Uomo, la loro menomazione psichica e fisica simboleggia la sua imperfezione, l'ignoranza e l'oscurità nella quale egli si muove: in un dialogo tra il protagonista e il padrone della locanda presso cui alloggia, la dottrina dei "degenerati" viene paragonata alla massima dell'apostolo Paolo: "si faccia stolto per diventare sapiente, poichè la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio" - "sono pensieri incomparabili" - "perchè? E' essenzialmente la stessa cosa".
Così come quella sola frase recitata dai degenerati nella loro unica preghiera ("lasciaci uscire da qui") non sarebbe altro che una riduzione all'essenza del sentimento religioso, di qualunque sentimento religioso, almeno nella visione nichilista e disperata di Lopushanskij: non c'è differenza tra i cosiddetti "normali" e i degenerati, perchè noi tutti siamo "deformi", un po' come ne "Anche i nani hanno cominciato da piccoli" di Herzog, in cui la deformità dei personaggi è allegoria della condizione umana.
In una lunga sequenza vediamo il nuovo Messia vagare da solo in mezzo a una natura desertica e selvaggia, in cui poter andare alla ricerca di un contatto col Sacro, lontano dalla presenza contaminante e mortifera dell'uomo, andando alla ricerca di un segno, di una manifestazione del Divino; unico momento, questo, in cui il lirismo delle immagini offre un parziale riposo all'occhio dello spettatore, in un film interamente dominato da una fotografia espressionista (e anche abbastanza rozza), basata tutta su un rosso sanguigno che inonda gli interni delle case e i volti, e sul nero che carica ogni immagine di un'angoscia opprimente. Ma la manifestazione non avverrà, Dio si nasconde, non si mostra, e il Messia storpio, come profetizzato dalle scritture, salirà sulla collina della "nuova era", un enorme cumulo di immondizia, iniziando a dirigersi verso un orizzonte in cui i rifiuti si perdono a vista d'occhio, non potendo fare altro che urlare a un Dio che si nega tutto il dolore sordo dell'umanità, mentre un sole alto e distante sembra guardarlo indifferente e stormi di corvi neri svolazzano sull'enorme discarica stagliandosi contro il cielo rossastro, nell'ultima, bellissima e terribile inquadratura.
Certo, qua e là una certa tendenza al manicheismo, qualche ingenuità e qualche concessione ad un weird quasi jodorowskiano, non rendono questo "Posetitel muzeya" quel capolavoro che a mio avviso avrebbe potuto essere. Vi si può rintracciare una certa ingenuità nella critica al razionalismo della civiltà occidentale che avrebbe portato quest'ultima alla rovina, così come un certo didascalismo nei dialoghi, che sembrano a volte presi da una di quelle recite medievali in cui non si faceva altro che dire quanto schifo facesse l'uomo ("l'uomo ha prodotto solo immondizia" afferma il degenerato, "no, l'uomo ha prodotto beni materiali" risponde invece il "razionalista").
Detto ciò, "Posetitel muzeya" rimane comunque un film di rara potenza visiva e visionaria, un'opera deviata, impossibile da catalogare all'interno di un genere; l'unica eredità ravvisabile è il cinema di Tarkovskij (oltre, in parte, ad un certo filone di fantascienza apocalittica che a quanto pare sta prendendo piede in Russia da alcuni anni a questa parte, ma di cui so poco o niente), di cui Lopushanskij ha sicuramente introiettato lo stile, la sensibilità visiva e le tematiche, ma che ha sviluppato in direzione di una visione del tutto personale e indipendente, sicuramente meno profonda e poetica, intellettualmente ed esteticamente più rozza, ma caratterizzata da un pessimismo cosmico e un nichilismo radicale, che in questo film toccano il loro punto più alto all'interno della filmografia del regista.